I pesi e le misure

Il sistema di misura nel mondo romano era unificato, ma nel corso della tarda antichità e del medioevo la ricerca dell’autonomia di ciascuna città portò alla intricata differenziazione delle unità di misura che possiamo trovare in Europa già dal XII-XIV secolo. I tentativi dei sovrani carolingi di porre rimedio alla situazione non ebbero successo, e le misure locali rimasero in vigore in Italia almeno fino all’epoca napoleonica, per poi essere definitivamente abolite (perlomeno ufficialmente) con la Legge dei pesi e delle misure del 1861. Per rendere possibili le attività commerciali era necessario procedere ai ragguagli fra le diverse misure, per le quali venivano anche pubblicati appositi manuali per mercanti. Si trattava di un problema ben noto alle ricche abbazie ravennati che ricevevano pagamenti e regalie in natura dalle loro tenute distribuite in tutta la Romagna, e non solo. Tutte le entrate dovevano essere convertite in quelle in uso a Ravenna. Ad esempio l’uva veniva misurata a Ravenna in barili ravennati (54,14 litri), ma quella proveniente da altre zone veniva misurata in corbe cesenati (65,95 litri), corbe faentine (72,63 litri), some di Cervia (66,90 litri) o mastelli ferraresi (56,78 litri).

Nel libro mastro del 1629 di S. Maria in Porto l’entrata di uva è misurata in carra.

Un barile equivaleva a 40 boccali (1,35 litri circa), un boccale (con il quale si misurava il vino dato ai lavoratori come salario) a 4 fogliette (0,33 litri circa), misura utilizzata soprattutto dagli osti.

La carra indica 10 unità volumetriche, quindi 10 barili ravennati.

I cereali e i legumi erano invece misurati in staja ravennati, con questo simbolo (quelle “rase” erano equivalenti 58, 045 litri) I suoi multipli potevano essere il sacco ravennate (tre staja) o il moggio (cinque staja).

La misura base per il peso era la libbra, indicata nei mastri di S. Maria in Porto.

A Ravenna era in uso sia quella sottile, equivalente a 347,8 grammi e divisibile in 12 once, sia la libbra grossa (specie per il sale) equivalente a 489,5 grammi.

Per alcuni prodotti il conteggio avveniva in unità (ad esempio uova, vitelli, ricotte, ecc..), o in para (paia) (ad esempio, polli, capponi…).

Lo scudo utilizzato nella contabilità delle abbazie è quello romano, indicato nei libri mastri dal simbolo , era equivalente a 5,375 lire.

Per quanto riguarda le unità di misura della superficie, i campi venivano misurati in tornature ravennati (3417,66 metri quadri) e ciascuna di essa era suddivisibile in 100 tavole, a loro volta composte da 100 piedi agrimensori quadrati. La pertica era invece equivalente a 100 piedi agrimensori.

L’agricoltura e l’alimentazione

I libri mastri e giornali dei portuensi riportano le entrate e le uscite sia in natura che in denaro divise per anno. Da questi dati è possibile ricavare le necessità alimentari, e non solo, dei monaci, e anche uno spaccato di vita della comunità dell’abbazia. I prodotti agricoli venivano venduti, utilizzati come mezzo di pagamento ai vari tipi di lavoratori, elargiti in doni ed elemosine. Nel caso del grano e di altri cereali, una parte (da un terzo a un quinto) veniva conservata per la semina.

I monaci presenti in abbazia erano 52 più nove servitori, il numero dopo il segno dei due punti indica, come nei registri originali, dei quarti dell’unità. Alle quantità in entrata in certi casi è necessario aggiungere quanto era rimasto dall’anno precedente.

Considerato che i monaci presenti erano cinquantadue, hanno consumato, oltre al resto, più di un cappone a testa, oltre a 56 uova, cinque “casetti”, mezza oca, mezzo vitello, e poco meno di 554 litri di vino ciascuno.

Attorno alla metà del Seicento nella tenuta di Raffanara si coltivavano principalmente cereali (soprattutto grano, circa l’80%, ma anche segale, orzo e orzola) e legumi (fave e fagioli). I seminativi erano a coltura promiscua e producevano anche diverse qualità di uve rosse (Canina Rossa,Guizzadola, Uva Rossa dolze e Uva Dora) e di uve bianche (Trebbiano, Albanella, Albana).

L’agricoltura e l’alimentazione

Per coprire tutte le esigenze della loro foresteria e disporre di una maggiore varietà, i portuensi acquistavano anche altri alimenti, in particolare frutta, ortaggi, carne, pesce, spezie, olio e formaggio. La distribuzione temporale dei prodotti consumati segue l’andamento stagionale dei raccolti delle coltivazioni ed è anche scandito dalle tappe più importanti della vita contadina, come la macellazione del maiale. I monaci consumavano molto pesce e molte uova, nonostante ne ricevessero in grande quantità come regalie, e acqua di fiume per la cucina. In cucina usavano utensili quali scodelle, pignatte, mescoli, padellone, padelle (anche appositamente fatte bucare per cuocere i marroni), ramine, scodelle di terra (o di rame), tegami, tazze di maiolica, fiaschi, solfarelli per accendere il fuoco, ma anche bicchieri di cristallo. Da due libri mastri del 1628 e del 1681 (ASRa, Corporazioni religiose, voll. 1364, 1396), particolarmente dettagliati, abbiamo tratto questi cibi, qui riportati con la denominazione e la suddivisione dell’epoca.

Pesci: sfoglie (sogliole), caviaro (caviale), rombi, pesce cane, sgombari, sardoni (acciughe), luzzi, sardelline, merluzzi, barboni (triglie di fango), russoli (triglie di scoglio), mazze (mazzole), pesce squadro, raza, tinca, ceffali, sardelle sallate, acquatelle, buratelli, paganelli, anguilla, baracole (razza chiodata), zangole (zanchetti), passere, govi (go), anguilla carpionata (marinata), calamarini, grancelloni (granseola), cannocchie, pavarazze, lumaghe.

Latticini: latte, ricotte per far le torte, butiro, formaggietti, formaggio piacentino.

Frutta e ortaglia: meloni, fichi, peri, limoni, cerase (ciliege), pignoli, prugne, persiche (pesche), uva passa, naranzi, pomi (mele), marroni, latuca, insalata, spargi, fenocchi, artichiochi (carciofi), cavoli capuzzi, cardi, rape, sellari (sedani), spinazzi, lupoli, radeghi (radicchi), cippolline, arveja (piselli), pressemoli.

Speziaria: zuccaro, zuccaro rottame (tipologia di zucchero grezzo), zaffarano, canella, noci moscate, fior di finocchi, pepe, sale, stecchi di garoffano, amandole, fichi secchi, aceto, oglio d’uliva, coriandoli per salciza, canella fina pesta di [… ] Venezia e [… ] zaffarano adoprati in far salciza fina, cervellati (un tipo di salume) e tomaselle (involtini).

Sotto la voce speziaria vengono elencate frutta secca e varie spezie utilizzate per marinare pesce e fare insaccati, a loro volta commissionati ai lardaroli.

Dispensa et attinenti: miele per fare torte e frittelle, riso, pan papato, panzetta d’animale per fare tomaselli (involtini) e budelli, coratelle d’animale per fare tomaselle e fegatelli, strutto, bigoli.

Carne: vitello armentano (di pineta), vitello bazano, grasso di manzo per tortellini e pastizzi, castrato, agnello, brasola, salsicce, figato di castrato per il giorno di tutti i santi, carne porcina, sacche di porco per far mortadelle in budelli gentili … per far cervellati et investire le teste de porci in forma de mortadelle (fare la coppa di testa), lepore, pizzoni (piccioni), vitello per fare un pastizzo, carne porcina per far pasticini, anatre, tordi e merli.

Condividi