San Giacomo di Raffanara

Nelle campagne di Russi, sull’argine destro del fiume Lamone appare oggi Palazzo San Giacomo, la cosiddetta “delizia” dei Rasponi. Questo palazzo sorge nelle terre che erano già dal XII secolo di proprietà dei Canonici di Porto e che nel 1664 vennero acquistate dai fratelli Guido Carlo e Cesare Rasponi per 29.500 scudi (ASRa, Corporazioni religiose, vol 1209). È a quest’epoca che i Rasponi iniziarono la costruzione del loro palazzo sull’impianto della costruzione preesistente. A quei tempi la zona era conosciuta con il toponimo di Raffanara, o San Giacomo di Raffanara, dal nome dell’ultimo tratto del fiume Lamone. Si trattava di una tenuta molto vasta che si estendeva su una superficie pari a 1000 tornature ravennati divisa in possessioni e siti di casanti, e comprendente terreni agricoli, giardini, orti e opere idrauliche. I principali edifici erano il palazzo, una grande cantina, una ghiacciaia, i solai da grano, una scuderia, diverse case di guardia lungo il Lamone e una piccola chiesa a fianco del palazzo.

L’inventario

Un atto notarile del 1659, contiene un inventario dei mobili presenti nelle case di San Giacomo di Raffanara e Madrara consegnati dal Priore dell’Abbazia agli affittuari e residenti nelle case di San Giacomo di Raffanara, “li quali si dovranno nel fine delle locazione restituire dalli medesimi signori affittuari tali quali saranno.”

I mobili sono distribuiti in questi locali: “Camera priorale a mezza scala”, “Camera abbaziale”, “Camera del vestiario”, “Camera delli due letti”, “Sopra il granaro”, “Andito d’abbasso nell’ingresso di casa”, “Stanza sopra il reffettorio”, “Camera abbaziale d’abbasso”, “Cucina”, “Stalla”, “Cantina”, “Dispensa”, “Diverse”, “Sacrestia”. Di seguito alcune voci dell’inventario.

Cucina: Una credenza di noce con una scansia vecchia
Una mattra (madia) di noce vecchia assai
Una tavola di noce grande vecchia
Un taliero (tagliere) d’albero da pane uso
Una banca da sedere vecchia
Quattro banche di noce et un altro banco di noce usato vecchio assai
Un paro di capifochi di ferro vecchi
Tre catene da fuoco di ferro
Una paletta con uno zampino di ferro
Due latte di ferro in un credenzino
Una mescola di rame
Un falzone, un penato et una seghetta con una manaia
Cinque spedi di ferro diversi
Due lume di ferro da oglio
Otto candelieri d’ottone diversi, uno rotto e gl’altri usati assai
Un paio di ferri da nevole (un tipo di dolce) vecchi
Un cassone d’arbore rotto per la maiolica
Due casse vecchie per la biada
Un segone di ferro, una ronchetta, due paletti, tre zappe, un rabbiello (erpice), con denti di ferro per l’horto,
Una bassa mattra di ferro
Sedazzi (setacci) n. tre, teli da pani n. due
Tavole per il pane n.due …
Due salaroli di legno per il sale Una corda per la bugata (bucato)
Un paiolo di rame per la bugata usato
Mescole di rame n. tre rotte
Coperchi di rame n. cinque rotti
Pignatte di rame n. due usate assai
Tre mastelle per la bugata fra piccole e grandi use
Una gratta casio rotta
Dispensa: Padelle di rame da torta piccole n. due
Due padelle da friggere . . .
Un trepiedi di ferro grande
Tre scaldaletti usati assai …
Cento piatti di maiolica, tra reali, mezzo reali e da salvietta
Due catini di maiolica da mano
Un catino da barba di maiolica.

L’istrumento di affitto del 1659

L’Istrumento dell’affitto dei beni di S. Giacomo, datato 6 giugno 1659 stabiliva le condizioni con le quali Orlando Malagola e i suoi due figli avrebbero gestito la tenuta per i nove anni successivi.

L’affitto di S.Giacomo e Madrara comportava un canone annuo totale di “lire quattrodiecimila e cinquecento di bolognini”, cioè 1454 scudi romani e 54 baiocchi. La superficie era di 1000 tornature ravennati, pari a circa 342 ettari. Il conduttore aveva l’obbligo di far lavorare i poderi più grandi (detti anche possessioni) dai lavoratori, quelli più piccoli dai casanti e, nel periodo della raccolta dei cereali e dei marzatelli (ortaggi che si seminano in primavera), anche da prestatori d’opera; si impegnava inoltre a occuparsi del bestiame (mucche e cavalli) ricavandone il guadagno.

Fra le clausole del contratto, a riprova dei rapporti di forza esistenti fra proprietà e conduttore, sotto la voce “Regalie riservate et in quali tempi per il tenimento di S. Giacomo” vengono enumerati i beni in natura che doveva corrispondere al proprietario, nel dettaglio: per la festa di S. Lorenzo “pollastri para dodici, et una somma di meloni buoni. Per la vendemmia otto panieri d’uva fresca e buona. Alla festa di tutti li santi quattro oche [… ] et una cesta d’uva secca e due pitarri di Saba o vin cotto di 50 libbre almeno in tutto. Per il Natale para due di gallinazzi e para dieci di capponi. Per la Settuagesima para dieci di galline. A Pasqua di Resurrezione ova numero ottocento.” Gli affittuari inoltre erano obbligati a “alloggiare e spesare almeno un giorno il reverendissimo Padre Abbate, due compagni, servitore e cavalli per occasione della fiera dei luoghi, e più alloggiarlo e spesarlo altre quattro volte l’anno come sopra, cioè due giorni per volta”.

Oltre al pagamento del canone, le regalie e l’impegno ad ospitare l’abate in determinate occasioni, i tenutari erano sottoposti ad un gran numero di vincoli. Questi riguardavano l’obbligo di apportare migliorie ai terreni (costruire fossi e altre opere di bonifica) tramite il lavoro di casanti, lavoratori o prestatori d’opera, vigilare sugli argini del fiume, controllare il lavoro e la permanenza dei coloni, sottostare a rigide norme circa la coltivazione delle piante e degli alberi (viti e loro tutori, alberi da frutto, da legno e da abbellimento), e infine occuparsi della manutenzione della chiesa. Il contratto, specifica poi che i conduttori potevano far fruttare la tenuta e suoi beni, ma comportandosi come “huomini da bene”, una specifica che esulava dall’ambito economico per entrare di fatto nella sfera della morale.

Condividi