Intanto si svolgono anche le indagini sugli oggetti e sulle prove trovate sul luogo: viene interpellata la Scuola di Polizia Scientifica, che da Roma invia il brigadiere tecnico specializzato Giuseppe Riggo, il quale “mette in evidenza con polvere d’alluminio sette impronte digitali” e fotografa due impronte di scarpe, una con sopratacchi di gomma, e l’altra chiodata. Tutti i confronti effettuati con le impronte dei numerosi sospettati e con le loro scarpe danno esito negativo. Il Direttore della Scuola di Polizia Scientifica, Salvatore Ottolenghi, manda un telegramma e una lettera datata 26 dicembre 1924 in cui informa la Questura dell’esito negativo degli accertamenti. Anche le indagini sullo scalpello, prodotto da una ditta di Verona che non distribuiva i suoi prodotti a Ravenna, non porta a nulla: probabilmente era stato acquistato a Ferrara ma gli addetti non si ricordano quale possa essere il compratore.

Persi in un guazzabuglio di testimonianze contraddittore, senza alcuna prova fondata, gli inquirenti sono costretti a scarcerare man mano gli indagati, che avevano passato comunque diversi mesi in carcere. Diversi e Bari, scarcerati il 2 giugno, si affrettano a chiedere la restituzione delle proprie scarpe.

Il furto della Corazza rimane così impunito, e la refurtiva persa per sempre. Antonio Bari dovrà rispondere anche di altri reati; lui e gli altri imputati e testimoni prima o poi torneranno alla loro vita fatta di espedienti e piccoli crimini, nei quartieri più decadenti di una Ravenna povera e malata dei primi decenni del ‘900.

Condividi